Durante una cena familiare, quando avevo sei anni, a me e a mio fratello è stata comunicata, da parte dei nostri genitori, una notizia molto importante, che mi spalancò le porte verso l’età adulta senza chiedermi il permesso, senza permettermi di attraversare altre tappe intermedie, e che cambiò il mio approccio verso le persone e la vita.
L’annuncio del giorno era ch’eravamo stati adottati.
Chiesi a mio fratello (più grande di un anno)cosa volesse dire, e la risposta non alleggerì l’informazione, anzi; mi disse, con la semplicità e la trasparenza di un bambino quale era, che loro non erano i nostri genitori.
Dopo qualche minuto capimmo anche, dai loro discorsi, che non eravamo nemmeno fratelli in quanto nati da madri diverse.
Questo succedeva tanti anni fa!
Diciamo che è passata molta acqua sotto i ponti del mio vissuto. Ma non tutta l’acqua passata ha guarito le ferite formate da quella principale dell’abbandono.
Sì perché il figlio adottivo percepisce per prima cosa l’abbandono e poi scende un enorme peso, una dualità tra il sentirsi perso e l’essere stato salvato.
L’adozione diventa così come una lente d’ingrandimento su ogni fase dell’esistenza, capace anche di un potere deformante sul proprio percorso di vita: una lente che ingigantisce e porta all’eccesso qualsiasi input, nel bene e nel male.
Gli psicologi, massimi esperti del settore, definiscono l’adozione come la ferita originale, intesa come quella ferita così profonda da non poter essere mai guarita, proprio perché riguarda il nucleo della nostra essenza, l’identità.
Si tratta certamente di un fatto che coinvolge e stravolge la vita della famiglia, quella dei quattro pilastri portanti: il figlio, la madre naturale e i due genitori adottivi.
Per il figlio, parlo per esperienza, la questione è talmente profonda che non si ha la percezione diessere portatori di una mancanza, di un buco nel cuore, soprattutto a sei anni. L’adozione è stata una situazione con la quale ho convissuto, una storia che non sono riuscita a fare mia, era come un film che raccontavo perché mi sembrava incredibile.
Ho iniziato a dirlo a tutte le mie amichette, volevo sentirmi importante, presente a me stessa e agli altri, come per far capire a tutti che: «Ehi sono qui, sono questa cosa qui!».
Avevo bisogno di riferirlo, di raccontarlo per sentirmi speciale, era tutto istinto.
La mia identità si associava sempre agli altri e alle situazioni. Volevo appartenere, esserci, in tutto. Ero tutto, nessuno e centomila, indossavo una maschera per ogni occasione; la mia canzone preferita, e un po’ il mio “mantra”, era diventata quella di Renato Zero La favola mia (così si puòrisalire anche alla mia età!). Mi mascheravo perché avevo paura della vita, però facevo esperienze su esperienze perché ne avevo fame.
Senza accorgermene sono diventata così “bulimica” della vita. Ma meno male che in questa canzone a un certo punto, dopo vari ritornelli tutti uguali alla fine compare una frase: «Dietro questa maschera lo sai ci sono io. Quel che cerco, quel che voglio lo sa solo Dio».
Così è arrivato lui! No, non Renato Zero ma Dio in persona.
Mi ha detto che Lui era mio padre e io sua figlia, mi ha dato un’appartenenza e uno scopo, una direzione. Sì perché se non sai chi sei non puoi nemmeno sapere dove stai andando.
Solo grazie a Dio, grazie a Suo figlio, accettando lo scambio che Lui ha compiuto sulla croce, ritorniamo ad essere figli. Ricevere il Figlio per essere figlio: solo allora riceveremo la nostra vera identità, sentiremo quel senso d’appartenenza e la certezza d’avere uno scopo nella vita.
Solo l’adozione originale può colmare ciò che l’adozione non può fare. L’adozione non risolve enon è tutto, come non lo è l’amore umano.
Anzi a volte si ha un approccio egoistico verso l’adozione, pensando che possa risolvere il nostro buco affettivo.
L’adozione è una benedizione, assolutamente, se affrontata in un quadro equilibrato.
Io ringrazio Dio per i miei genitori, e per il modo in cui hanno cresciuto me e mio fratello ma la verità è che sono state persone normali (anche se per me straordinarie) che ci hanno dato un amore limitato e comunque inquinato da ferite che a loro volta si portavano dietro, non risolte per vari motivi.
La vera adozione è quella che procede da Dio, per tutti noi esseri umani orfani dalla nascita.
La Sua paternità ci riporta alla nostra vera identità e a quell’appartenenza che mette radici. Così radicati, non saremo spazzati via nel momento in cui arriveranno le tempeste della vita, e arrivano.
Pensavo di essere una donna indipendente ma ero dipendente dalle persone in modo patologico. Pensavo di essere una persona forte, una donna in carriera, ma mi perdevo quando avevo le crisi di panico.
Pensavo di essere l’anima della festa quando sperimentavo i miei momenti alti, ma in altre circostanze diventavo uno zerbino per via di quanto ero depressa. Pensavo di essere un sacco di cose ma ero solo molto confusa e per questo facile preda di chiunque e carnefice, perché ferita.
La rinascita è il viaggio eroico per eccellenza, ci saranno tempeste ma la casa, se costruita sulla roccia, non cadrà. E la roccia è Gesù Cristo e la Sua parola.