Scroll Top

Ti lascio andare

Ti lascio andare

Mi chiamo Adriana, classe 1965, una buona annata per nascere, quelli erano ancora anni in cui le 4 stagioni erano ben definite, non c’era tutto questo inquinamento, si viveva con meno ma più felici. L’unico appunto sul tempo?….. ma come siamo arrivati nel 2021 così velocemente???

Sono nata in una famiglia cristiana, genitori credenti che si sono incontrati e innamorati nella Milano del dopo guerra che offriva a molti un posto di lavoro e molta dignità.

Oltre alla fede e ai principi biblici, i miei genitori mi hanno insegnato la generosità…; sempre disponibili, pronti all’aiuto: lui forte (almeno così una bimba vede il suo papà), lontano dalla famiglia per un lavoro da operaio che lo teneva a casa, in media, una/due settimane al mese, lei la classica mamma chioccia, premurosa per i suoi figli, ben sei, uno dietro l’altro, una donna presente, intelligente malgrado la sua terza elementare, infaticabile, ottima cuoca, per mio padre un riferimento, il perno della famiglia, una famiglia che posso definire sicuramente di tipo matriarcale.

L’ultimo cucciolo è arrivato alla soglia dei miei 10 anni, un fagottino fragile e molto esigente: Emidio. E’ nato il 1° marzo del 1975, io compivo il mio compleanno il 29 dello stesso mese.

Uno scricciolo che fin da subito ha dettato i tempi e le priorità di tutti noi, condizionando la vita di tutta la famiglia, un fulmine a ciel sereno, il maschietto dopo 4 femmine….

Ben presto ho capito i gravi problemi neurologici causati da alcuni errori in sala parto. Sono sempre stata molto “adulta” e quindi ascoltavo i discorsi di mia madre questo mi proiettò subito in una realtà assai difficile per una bambina.

Quante notti sveglia tra pianti di Emy (non riusciva a dormire) e nervosismi comprensibili da parte della mamma, poi la mattina si andava a scuola (non vi dico in che condizioni). E già, il forcipe usato in sala parto, in quegli anni, ha tolto il sorriso, la serenità in molte famiglie italiane.

Solo la fiducia in Dio ci ha potuto sostenere soprattutto nei primi anni di vita di Emidio dove le crisi erano maggiori e all’ordine del giorno.

Ma torniamo a me, sono stata subito ingaggiata come assistente mamma, sentendo da quel momento in poi la frase “sei la più grande…”, Adry mi aiuti?, Adry mi cambi Emy? Adry dai tu il biberon? Adry Emy vuole te…, Adry dov’è tuo fratello? … ecc. ecc.

Due risvolti: quello negativo è che la mia infanzia e la mia adolescenza è stata fortemente condizionata e per certi versi spazzata via, quella positiva aver intessuto un rapporto con mio fratello così forte al punto da essere stata per lui un riferimento importante, una sorta di sorella-mamma.

Tutte le attenzioni e le coccole erano per Emy e tutti, anche i miei fratelli, hanno dovuto fare i conti con un’infanzia rigida, diciamo asciutta.

La mia sensibilità verso il fratello bisognoso cresceva a dismisura, comprendevo responsabilmente le scelte di mia madre, scelte che per noi, per me si traducevano in rinunce; è stato molto difficile credetemi.

Si è formata così una personalità e un carattere indipendente e autosufficiente; un senso del dovere fin troppo esagerato, una durezza scaturita probabilmente dall’assenza totale di coccole e attenzioni dedicate.

Vorrei spiegare meglio questo punto. Non che i miei genitori non mi amassero, non mi è mancato nulla di ciò che si considera basico, ma le rinunce erano molte: emotive (non ho memoria di una carezza o di un abbraccio da parte di mio padre che invece assumeva costantemente il ruolo di castigatore.

Per lui non facevo mai abbastanza, mai un complimento, la costante era “quello/a ha fatto meglio di te”), economiche, scelte personali, progetti e desideri personali.

Tutte le attenzioni insomma volgevano su Emidio, le priorità assorbite totalmente dalle necessarie cure mediche e non solo, semplicemente non c’era spazio per altro.

Se quanto detto fino ad ora può essere catalogato come “mare agitato”, la prima vera tempesta l’ho incontrata con la malattia di mia madre, la sua sofferenza durata due anni e la sua morte nel maggio del 1998 a causa di un cancro. Io avevo 33 anni, Emi appena 23.

Una tempesta dentro che non mi dava tregua e una calma forzata fuori per Emidio; non volevo soffrisse come stavo soffrendo io, non sapevamo come avrebbe reagito a questo evento luttuoso e neppure i medici ci avevano dato rassicurazioni: tutto poteva succedere anche a distanza di diversi anni. Con queste premesse, le preoccupazioni e quel senso di abbandono urlavano nella mia testa e nel mio cuore.

Volevo fortemente la guarigione di mia madre ma le mie preghiere non avevano incontrato l’esaudimento di Dio e io stavo combattendo una battaglia dura, decisi di ribellarmi e lo stavo facendo nel “migliore dei modi”…, non volevo essere più la brava ragazza, ubbidiente, comprensibile e capace.

Andavo in chiesa perché mi era stata inculcata la fede in Dio fin dalla nascita, non avevo il coraggio di abbandonare Dio, ma ero lontana dal Suo cuore, volevo vendicare quel mio senso di “giustizia”, la delusione era forte e non accettavo, non era giusto fare il funerale a una mamma tutto sommato ancora giovane.

Non volevo ammetterlo ma ero arrabbiata con Dio, mi aveva portato via la mamma e, cosa altrettanto grave, mi aveva lasciato con Emy, questo risuonava nella mia anima come una condanna definitiva a “non occuparmi più della mia vita” a discapito dei miei progetti e dei miei desideri.

Ancora una volta vedevo la mia vita messa da parte, ricordo che gridavo a Dio: “io non sono la mamma di Emy, perché mi hai messa in questa situazione?” – odiavo infatti la situazione e vedevo Emy come un problema da gestire per tutta la mia vita malgrado l’amore che avevo per lui, mi sentivo INCASTRATA.

Dopo soli 5 anni, nel frattempo avevo fatto pace con Dio e stavo riprendendo faticosamente il cammino, una telefonata dei carabinieri arrivata alle 5,00 del mattino, ci informò che mio padre aveva avuto un ictus ed era morto sul treno.

Anche lì, dovetti indossare la maschera della tranquillità senza far trasparire nulla ma dentro, dentro si stava consumando un altro capitolo drammatico della mia vita. Piangevo le mie lacrime di notte e sempre di nascosto da Emy.

A quel punto mi sono sentita veramente sola e anche incapace….. le mie sicurezze avevano lasciato il posto alla paura di non sapere portare avanti quello che restava della famiglia: ero la più grande e la pressione, la responsabilità era eccessiva.

Così, non potendo contare più sui genitori, ho preso il timone dedicandomi totalmente a Emidio. Vivevamo in una villetta tutte insieme, io, due sorelle e il principe Emy.

Il film “La vita è bella” di Roberto Benigni mi servì tantissimo e in qualche modo ho cercato sempre di cavalcare quel modo di essere e di fare.

Cercavo di far vivere a Emy una vita felice malgrado tutto dipingendo le circostanze in situazioni positive che non lo facessero preoccupare.

Non volevo in alcun modo che si potesse sentire triste o mancante di qualche cosa. Gli facevo da mamma, da papà, da sorella che ha volte lo disciplinava ma soprattutto ho dato a lui quello che io non avevo ricevuto: un amore esagerato, attenzioni e coccole come se non ci fosse stato un domani.

Una cosa che non avevo previsto è che da quel momento il sentimento di amore era totale, assoluto, profondo fino a raggiungere le mie viscere. Non solo lui non poteva fare a meno di me ma ero io soprattutto ad avere bisogno di sentirlo, coccolarlo,  passare del tempo.

Stavo male quando andava in ferie, stavo male quando si ammalava, cercavo in tutti i modi un contatto: non era più un problema da gestire per tutta la vita, era diventato un premio per la mia vita. Ringraziavo Dio per Emy, ero felice di convivere con un regalo del cielo così grande.

Quando abbiamo dovuto lasciare la villetta, non è stato facile organizzare la mia vita a 10 km di distanza da Emy che viveva con una mia sorella. Lei si occupava della settimana ma i week end erano tutti per me. Il tutto iniziava il venerdì sera con una telefonata, dove Emy mi organizzava letteralmente le giornate del sabato e della domenica.

Questa cosa mi faceva ridere, lasciavo che lui decidesse cosa voleva fare, metodico come era i suoi punti fermi erano la colazione al bar del sabato, il giro in un qualche centro commerciale, la colazione della domenica sempre e rigorosamente seduto al tavolo di un bar e il gospel. Al Sabaoth  incontrava tutti i musicisti (una categoria per lui importante), ma soprattutto un musicista, il pastore Julim che adorava.

Mi diceva chi c’era e chi non vedeva, faceva una sorta di appello e voleva una giustificazione quando non c’era il suo preferito. Salutava tutti ma dispensava baci e abbracci solo per Elisa Risitano (moglie di Julim, si capisce), per Angela e Nik.

Ho amato Emidio in un modo travolgente, capivo che il sentimento andava oltre l’essere la sorella, adoravo la sua ironia, mi faceva ridere, amavo le sue coccole, i suoi abbracci possenti, la sua sensibilità: un bambino incastrato in un corpo adulto.

Ho ringraziato Dio per Emidio, per come era, per i suoi limiti che mi hanno permesso di prendermi cura di lui e di amarlo così. Dicevo sempre: “Signore se fosse stato “normale” non mi avrebbe coccolato, avrebbe frequentato le sue amicizie, avrebbe coltivato i suoi interessi come è normale che sia, e io non avrei ricevuto tutto quell’affetto e quell’amore da parte sua. Io avrei perso l’opportunità di viverlo come l’ho vissuto.

Ero felice perché lui era felice. Non aveva subito quello che era stato pronosticato dai medici riguardo ai lutti dei genitori, al contrario era molto sereno.

Poi, il 1° maggio del 2018 è calata ancora una volta la “notte buia” nella mia vita. Di nuovo sballottata da onde così alte da non credere di farcela. Una preghiera irrefrenabile, giorno e notte per chiedere un miracolo che ancora una volta mi era stato negato. Difficile accettare quel “non la mia ma la Tua volontà…”.

Straziante averlo lasciato andare…

Ho compreso che le tempeste sono tutte uguali, cioè, le tempeste sono tempeste: crudeli, feroci, ingiuste, pericolose, dolorose; ciò che ci permette di superare la tempesta è il modo come noi l’affrontiamo.

Ho dovuto prendere in mano tutta la  fiducia in quel Dio che in fondo mi aveva “prestato” per 42 anni un essere così speciale, ora voleva riportarlo nuovamente a casa.

Quando pregavo mi trovavo spesso a dire: Signore non permettere che io muoia per lasciare Emidio sulla terra senza di me, preferisco piangere io, non voglio che lui possa mai sentirsi abbandonato e solo… ecco in questo ho trovato sollievo e se ho trovato il coraggio di restituire quel dono è SOLO ed esclusivamente perché sapevo di aver fatto tutto il mio meglio per lui, consapevole che tra le braccia di Dio sarebbe stato di gran lunga meglio.

Oggi vive in un corpo non più limitato dalla lesione celebrale e dagli effetti collaterali di tutte quelle medicine incamerate fin dalla nascita. Finalmente in un corpo nuovo, perfetto.

Questa è la chiave della mia consolazione: quando la tristezza, la mancanza e il vuoto mi sale in gola, posso parlare alla mia anima per ricordarle che va tutto bene, che Emy sta bene e, soprattutto, che lo rivedrò e lo riabbraccerò.

Post Correlati

Lascia un commento