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Travaglio di un’anima

Quando si tratta di parlare della mia storia, non so mai da dove iniziare. Vorrei dire: «Cera una volta…». O potrei iniziare con: «Quel giorno...», mi piacerebbe trovare l’incipit adatto per poter iniziare a raccontarmi, anche in un breve articolo. Potrebbe sembrare banale, ma sono spesso restia a parlare di me, tuttavia qui su Donnesenzatrucco è bello rimanere acqua e sapone. Iniziamo dalle presentazioni.

Mi chiamo Grazia, un nome che per molto tempo ho detestato perché mi sembrava poco adatto (preferivo un nome come Gloria, ma questa è unaltra storia). Non ho vissuto né uninfanzia né unadolescenza facile.

Avevo il cuore diviso tra i miei genitori e una sorta di famigliaaffidataria, che si spartiva fra la cultura nigeriana e quella italiana, dislocata tra la Puglia e la Lombardia. L’unica certezza era la mia fede cristiana e la mia confessione cattolica.

Dopo aver trascorso le scuole dell’obbligo in provincia di Mantova bullizzata dai miei compagni, sotto l’indifferenza dei professori, stabilii che mi sarei dovuta far valere, avrei dovuto riscattare la mia immagine e decisi quindi di iscrivermi a diciotto anni all’università di Bologna (ho iniziato un anno prima le scuole elementari), intenta più che mai a trovare il mio posto.

I primi successi accademici, i primi amori, mi sembrava di vivere la vita che avevo sempre visto raccontata in qualche serie televisiva. Stavo riuscendo a fare tutto ciò che mi ero prefissata, dalle piccole alle grandi cose.

Le ferite del passato, il senso di inadeguatezza erano coperti dalle mie conquiste. Terminai la triennale e decisi di proseguire gli studi cambiando città, optai per la capitale perché sentivo ilbisogno di provare qualcosa di nuovo, di andare oltre i miei limiti.

In questa metropolitana inaspettatamente ritornai a sentirmi piccola, vulnerabile. Non riuscivo a controllare il mondo esterno, troppo caotico per me, allora mi concentrai sulla mia immagine apparente.

Fui come avvolta dal bisogno di dare unidea di donna forte e indipendente, come quelle delle mie eroine di sempre. Iniziai col perdere i primi chili in eccesso, e poi divenne una sorta di sfida con la bilancia. Arrivai con il pesarmi ogni ora, segnando su un diario ogni variazione di peso. Non facevo il calcolo delle calorie ingerite ma avevo acquistato una piccola ciotola cinese e il cibo chemangiavo, una volta al giorno, doveva essere contenuto esclusivamente in quella ciotola.

In modo molto subdolo ero finita nella spirale dei disturbi alimentari. Anche il mio fisico ne risentiva con svenimenti e persi per almeno cinque mesi il ciclo mestruale ma davo la colpa alla città, dicevo che forse stavo sviluppando una sorta di intolleranza verso Roma. Questa spirale fubruscamente interrotta da un avvenimento inaspettato: la morte di mio padre.

Il mio miglior amico mi aveva abbandonato il 14 ottobre, in quel preciso momento la terra che avevo sotto i piedi iniziò a crollare. Lui che era il mio coach, colui che mi aveva detto che con lo studio sarei potuta andare dove volevo ed essere tutto ciò che desideravo, mi aveva lasciato per sempre.

Era successo tutto così allimprovviso che non riuscivo a comprendere, e per una così attenta ai dettagli, fissata con lordine e la precisione tutto questo era del tutto fuori controllo, non rientravaper niente nellordinario.

Feci ciò che mi riusciva meglio, smisi di piangere, raccolsi i pezzi del mio cuore e mi concentrai più che potevo sullo studio, sui miei obiettivi e sui rituali religiosi che mi avevano sempre accompagnata.

Presi la seconda laurea e mi trasferii a Milano, per una nuova avventura. Mi ripetevo costantemente come un mantra delle parole per incoraggiarmi a non piangere e a non farmi sopraffare dalle mie emozioni, mi ripetevo di essere una spartana, una stoica che non poteva permettersi di farsi bloccaredalla depressione. Questa lotta la stavo come sempre vivendo da sola, ero brava a nascondere ciò che sentivo, ero brava a indossare maschere.

Non sapevo che la mia vita sarebbe cambiata drasticamente. Una domenica decisi di accompagnare mia madre nella sua chiesa protestante, chiarendo ovviamente che lo facevo solo per farle compagnia. Ero più che sicura del mio status di cattolica.

Durante il culto, mentre tutti i fedeli cantavano, sentii una voce distinta all’orecchio: «Sono io il tuo migliore amico».  Si trattava di Gesù, dopo tre mesi fui battezzata proprio in quella chiesa.

Sembrava che finalmente la quiete fosse giunta per la mia famiglia e per me.

Mia madre era contenta di vedermi seduta accanto a lei nei banchi della chiesa, cantando e battendo le mani. Dopo pochi mesi conobbi un lupo rapace proprio lì tra quei banchi evangelici.

È stato il mio aguzzino, con lui si instaurò una relazione tossica abusante e violenta che durò all’incirca tra mesi. Forse per via del mio vecchio retaggio cattolico ero convinta che Dio volesse rendermi martire in questo modo, o mi stesso punendo per via di tutti i peccati precedenti. Questa persona non soltanto mi stava facendo violenza fisica ma anche psicologica e non me ne rendevo conto. Ero ritornata ad avere disturbi alimentari, attacchi di panico e ansia, non mi riconoscevo più.

Una sera dopo l’ennesima violenza feci una piccola preghiera a Dio, chiedendogli di farmi uscire da quella relazione. Lui lo fece, nel giro di pochi giorni uscì dalla mia vita il mio mostro.

Questa violenza non riuscivo a reggerla, non ne parlai con nessuno, tenni nuovamente ogni cosa per me e implosi. Fece il suo ingresso la depressione.

Smisi di dormire, i sonniferi non facevano effetto, trovai come alleato lalcol. Bevevo una bottiglia di vino seguita da qualche superalcolico e sigarette, nel silenzio della mia stanza buia.

Quando mi guardavo allo specchio provavo solo odio e disprezzo per limmagine riflessa,appesantita da diversi chili per via della vita che stavo vivendo. Il mio nome non corrispondeva affatto con la realtà di allora. Non cera Grazia per me, solo delusione; non c’era Grazia per me, solo depressione. Iniziai quindi a pensare che la soluzione di ogni problema fosse proprio non esserci.

Avevo ridotto al minimo ogni tipo di contatto con il mondo oltre la mia stanza, ordinavo da mangiare perché non volevo assolutamente entrare in un supermercato, limitavo al massimo il mio lavoro da dottoranda, inventavo impegni per non vedere la mia famiglia nel weekend e per evitare le uscite con i colleghi. L’unico contatto reale con il mondo esterno lo vivevo da dietro lo schermo e la tastiera del mio notebook.

Conobbi una ragazza su internet e decidemmo di prenderci un caffè al Duomo. Giunta all’appuntamento, questa ragazza mi accolse con una lunghissima chiacchierata su Dio (un approccio decisamente inaspettato).

Mi parlò del rapporto straordinario che aveva con Gesù e io fingendo di seguire il discorso continuavo ad annuire. Dentro la rabbia mi stava facendo ribollire il sangue, Gesù non si era mai comportato con me come stava descrivendo questa sconosciuta.

Anche se da quasi dodici mesi avevo smesso di frequentare ogni tipo di chiesa, avevo bisogno di spiegazioni: perché ero la figlia di serie Z?

Per lavoro dovetti fare un viaggio all’estero, desideravo provare emozioni nuove ma tornai più vuota che mai. I miei rimedi contro l’insonnia avevano smesso di funzionare, non ero più in grado di reggere nulla, di controllare nulla neanche l’ordine della mia stanza. Presi quindi una decisione, l’indomani mi sarei suicidata.

Iniziai a piangere e dissi: «Dio, io non sono più sicura che tu ci sia, forse sono vittima di un inganno. Se ci sei, aiutami ti prego o farò io qualcosa». Mi addormentai tra le lacrime e i singhiozzi. Il giorno dopo ricevetti un messaggio, la ragazza del Duomo mi aveva invitato nella sua chiesa per la mattinata. Accettai senza pensarci due volte, avrei posticipato semplicemente il mio suicidio.

Entrai in quel posto insolito, un teatro, mi misi a sedere e nel momento della lode sentii ancora una voce che mi disse: «Lo vuoi capire o no che sono io il tuo migliore amico?!».

Riconobbi quella voce, iniziai a piangere. Gesù mi stava parlando, ciò mi blocco dall’intraprendere quel piano diabolico per la mia vita.

Quella domenica di ottobre non stavo più pianificando la mia morte ma iniziai a progettare la mia vita con il mio migliore amico, l’unico che non mi ha mai abbandonato e mai lo farà. Con lui stocontinuando a percorrere questo cammino fatto di alti e di bassi, consapevole di non doverli affrontare mai più da sola.

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